Responsabili, costruttori, trasformisti…chiamateli come volete. Ci conviviamo da 150 anni, non sono un’invenzione di questi ultimi giorni, motivo in più per il quale dovremmo farci delle domande e finalmente agire per eliminare un malcostume profondamente italiano.
La situazione attuale, con la ricerca dei “costruttori” da parte della maggioranza (e i contemporanei sms della Lega per ottenere lo stesso risultato, ma a favore dell’altro schieramento), nasce dalla crisi aperta dal partito “Italia Viva”. Un partito che alle elezioni parlamentari del 2018 ha ottenuto ben…zero seggi. Semplicemente non esisteva. Oggi conta 17 senatori, ovviamente tutti eletti in altri partiti.
Se non ci fossero stati cambi di casacca oggi in Parlamento, anche in Senato, la maggioranza sarebbe ampia. Sommando i senatori eletti con M5S (111), PD (53), LeU (4), SVP (3), MAIE (1), e altre formazioni minori del centrosinistra (3) si giungerebbe infatti alla somma di 175 seggi, ampiamente oltre il quorum di 161. Tutto ciò non avviene poiché nel frattempo da questi partiti alcuni senatori hanno deciso di cambiare casacca e passare, in alcuni casi, persino a gruppi di opposizione. Siamo dunque nell’assurda situazione in cui la maggioranza sta cercando “costruttori” o “responsabili” tra senatori che, in origine, erano stati eletti proprio nelle loro fila. Vogliamo dunque aggiungere anche la categoria dei “figliolprodighi” o siamo già abbastanza al surreale?
Una situazione analoga e, per certi versi, ancora più assurda è avvenuta a fine 2010. La coalizione di centrodestra guidata, al tempo, da Silvio Berlusconi aveva stravinto le elezioni parlamentari del 2008. Il centrodestra aveva 344 deputati e 174 senatori. Eppure anche in quel caso il Governo non riuscì ad avere una maggioranza effettiva solida. Fu il partito fondato da Gianfranco Fini, FLI, a portare via dalla maggioranza un consistente numero di eletti tanto da rendere necessario, per garantire la sopravvivenza del Governo, l’apporto del gruppo dei “responsabili” guidato da Scilipoti e Razzi.
Si tratta di un malcostume di lunghissima data. Nel 1882 l’allora presidente Agostino Depretis pronunciò un discorso emblematico: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”. Da quel momento iniziò ad essere accettata, sebbene già da allora criticata (da chi restava all’opposizione, s’intende) la pratica del cosiddetto “trasformismo”.
L’articolo 67 della nostra amata Costituzione sancisce che i parlamentari eletti rappresentano la Nazione senza vincolo di mandato. In base a questo principio, dunque, è costituzionalmente legittimo che un parlamentare possa votare in dissenso dal proprio gruppo politico e che possa persino abbandonarlo per iscriversi ad un altro. Si tratta di un comportamento poco elegante, spesso punito dagli elettori (è raro il caso di gente che cambia partito e poi viene rieletta nelle elezioni successive, anzi, spesso neanche viene ricandidata visto che i dirigenti del nuovo partito cui il soggetto ha aderito legittimamente possono pensare che “come ha tradito gli altri, potrà poi farlo anche con noi”), ma comunque costituzionalmente legittimo.
Alcune forze politiche, in particolare il M5S che è indubbiamente la forza politica che maggiormente subito negli ultimi anni i danni del trasformismo (in questa legislatura ha finora perso 19 senatori su 111, in quella precedente addirittura 19 su 54), hanno proposto l’introduzione del vincolo di mandato proprio per evitare queste situazioni.
Il discorso sarebbe lungo e complesso, ma l’assenza di vincolo di mandato è un principio quasi unanimemente accettato nel mondo.
Appare comunque fondamentale che la difesa di un principio costituzionale non diventi occasione per il malcostume dei continui cambi di casacca e per la formazione di gruppi politici fittizi all’interno del Parlamento senza che essi siano passati dal giudizio degli elettori.
Il sistema per eliminare il problema senza alterare i principi costituzionali potrebbe essere l’adozione di quella che gli anglosassoni chiamano “Recall Election”, ovvero “Elezione di richiamo o confermativa”. In sostanza: vuoi cambiare gruppo politico? Liberissimo di farlo, ma prima devi avere il consenso dei tuoi elettori. Si organizza dunque una elezione limitata al collegio elettorale in cui sei stato eletto e puoi presentarti sotto le insegne del tuo nuovo partito. Se gli elettori ti confermano rientri in Parlamento pienamente legittimato a far parte del tuo nuovo partito, altrimenti entra un altro. Semplice.
Altro sistema per garantire governabilità: la sfiducia costruttiva. Un paese sottoposto alla continua minaccia di crisi di governo, nuove elezioni e comunque forte instabilità ovviamente si trova in condizioni di scarsa credibilità internazionale. Nessuno vorrebbe mai investire in una democrazia instabile e caotica. In Germania e Spagna (oltre ad altri paesi, ma segnalo quelli più vicini e simili) se si vuole far cadere un Governo si deve contestualmente presentare una maggioranza alternativa. Non si fanno dunque crisi di governo al buio – altra brutta tradizione italiana – ma si sa già quale sarà il possibile nuovo governo in caso di caduta di quello attuale. L’indimenticabile cancelliere tedesco Helmut Kohl ha conquistato così la guida del governo tedesco nel 1982, mantenendo poi tale carica fino al 1998; l’attuale presidente spagnolo Pedro Sanchez è stato eletto dal parlamento nel 2018 contestualmente alla sfiducia del precedente esecutivo guidato da Mariano Rajoy.
Possiamo, anzi, dobbiamo ambire a una politica migliore. Non so se l’attuale opzione costruttori/responsabili avrà successo o meno. Viste le alternative (elezioni in piena pandemia o ennesimo governo tecnico lacrime-e-sangue) spero di sì, anche se non è certo una prospettiva esaltante. Sarebbe tuttavia il caso di pensare soluzioni costituzionali in grado di far sì che questa opzione non debba mai più essere necessaria in futuro.
I “responsabili” sono infatti il frutto dei precedenti cambi di casacca. La sera delle elezioni deve essere chiaro quanti seggi in Parlamento ha ottenuto ciascuna forza politica e deve esserci la certezza (che, al momento, manca totalmente) che quel numero resterà sostanzialmente invariato per tutta la legislatura. Con regole del genere, pensateci un attimo, quante discussioni inutili sentite negli ultimi anni avremmo potuto totalmente evitare?