Progressisti, non aspettate il PD!

Il Partito Democratico è ormai un contenitore unico per due idee (almeno due…) completamente diverse di società. Chiamatele come volete: conservatori e progressisti, liberaldemocratici e socialdemocratici, atlantisti e europeisti, carbonisti ed ecologisti, centro e sinistra.

La maionese che dal 2007 Veltroni e i suoi successori hanno cercato di amalgamare pare essere definitivamente impazzita e il congresso di marzo potrebbe evidenziare questa condizione nella maniera più drammatica: la scissione del partito in due blocchi.

Non è un problema solo del PD, ma anche di tanti altri partiti: in questa epoca in cui il consenso è estremamente fluido e volatile la problematica si rispecchia in tutte quelle realtà politiche fondate più sull’affermazione di un leader che su quella di una piattaforma programmatica.

Il dibattito interno al PD ricorda dunque, pur con evidenti differenze, quello vissuto negli ultimi due anni dal Movimento 5 Stelle e conclusosi con una inevitabile quanto salutare scissione. Se la scissione, come nel caso dei pentastellati, porta a chiarire le posizioni non è infatti necessariamente un male. Oggi il nuovo Movimento di Giuseppe Conte può camminare con la sicurezza di una propria identità chiara (molto diversa da quella del “Movimento delle origini”), codificata ufficialmente in una pregevole Carta dei Valori inserita nello Statuto del partito e soprattutto – questa è la novità fondamentale rispetto alla precedente gestione Di Maio – rispettata nell’azione parlamentare ed elettorale. Pur a costo di non fare alleanze di comodo e pur accettando alcune inevitabili sconfitte.

Giuseppe Conte sa bene di non poter contare sulle sole forze del Movimento se vuole tornare un giorno al Governo e dunque dovrà necessariamente allargare il consenso, ma sa altrettanto bene che questo richiederà tempo, gradualità, pazienza e soprattutto coerenza nel mantenimento di una chiara identità.

“Proponete solo quello che è effettivamente realizzabile, non prendete in giro i cittadini”: questo è stato il messaggio più forte che ci ha lasciato lo scorso anno durante la sua serata a Sansepolcro. Un punto per nulla banale e scontato se osserviamo quella che è stata la politica e soprattutto la comunicazione politica degli ultimi anni. Compresa quella del vecchio Movimento.

I cittadini hanno perso fiducia nella politica anche perché sono stanchi di essere ripetutamente illusi da promesse mirabolanti o annunci shock (un milione di posti di lavoro, abolizione della povertà, mille euro con un click…l’elenco sarebbe lunghissimo). Non c’è nulla di più facile di proporre ciò che la gente vuole – anche se oggettivamente non realizzabile – quando si sta all’opposizione e non si ha dunque l’onere della prova. Quando poi si vincono le elezioni e si deve governare cambia tutto e giustamente i cittadini pretendono che vengano realizzate le promesse fatte ai tempi della beata opposizione.

Meglio dunque tornare a una politica fondata su cose concrete e fattibili, sullo studio attento di ciò che può essere davvero realizzato e, perché no, copiato da altri.

Il tutto senza mai dimenticare le peculiarità uniche al mondo della società e delle comunità locali italiane.

Fratelli d’Italia ha costruito nel tempo e gradualmente il proprio successo nella destra italiana. Per anni si è limitata a portare in dote all’alleanza i voti dell’ex MSI e ha pazientemente atteso l’evoluzione dei tempi.

A un certo punto, credendo erroneamente fosse giunto “il suo momento” l’ex leader di quella formazione, ai tempi ancora chiamata Alleanza Nazionale, tentò di forzare la mano e si autodistrusse: si chiamava Gianfranco Fini, forse ve lo ricorderete.

A lungo quella coalizione ha avuto il proprio fulcro nella figura di Silvio Berlusconi e sulla narrazione da lui portata avanti. Erano i messaggi che gli italiani volevano in quegli anni e gli hanno permesso di vincere nel 1994, 2001 e 2008.

In quegli stessi anni l’allora Ulivo provò, va detto, a darsi una propria identità. Non riuscendoci. Riuscì anche a vincere due volte le elezioni, nel 1996 e nel 2006, con Romano Prodi. La fusione tra i vecchi gruppi dirigenti del PCI-PDS e quelli della DC-Margherita, tuttavia, fu più una somma che una sintesi. L’Ulivo vinse aggregando di tutto e di più (ben oltre il “campo largo” lettiano), ma in entrambi i casi diede poi vita a governi a dir poco traballanti e inconcludenti, costretti a una quotidiana mediazione tra molteplici fazioni e correnti in drammatico conflitto tra loro per ottenere un minimo di visibilità.

Il Partito Democratico, erede teorico di quell’Ulivo, ha ripetuto la medesima strategia aggiungendo la persistente incapacità di vincere le elezioni. Dalla propria fondazione il PD non ha mai vinto le elezioni nazionali; tuttavia, ha governato per 11 anni su 15. Lo ha fatto proprio in virtù della propria assenza di identità. Ha dunque governato con Monti (insieme a Forza Italia, UDC e al già citato Fini…fino a qualche mese prima bollato come post-fascista), Letta (insieme a un’ala scissionista di Forza Italia guidata da Angelino Alfano), Renzi (ancora con Alfano e con l’aggiunta di Denis Verdini), Gentiloni (dicesi pure Renzi bis), Conte (con i 5 Stelle avversati fino al giorno prima) e infine Draghi (con chiunque).

Identità. Non è una parolaccia. Non è un caso se oggi gli unici due partiti in ascesa sono Fratelli d’Italia (almeno finché non dovrà fare davvero i conti con l’onere della prova) e Movimento 5 Stelle. Per un lungo periodo è stata invece la Lega ad avere grande successo, ma la repentina ascesa e la successiva caduta del partito di Salvini dovrebbe anche insegnarci quanto sia pericoloso sovrapporre due mondi che, pur trattando gli stessi temi, sono tra loro lontanissimi: politica e comunicazione politica.

Salvini, insieme al proprio guru della comunicazione Morisi aveva impostato un sistema di controllo scientifico delle opinioni, meglio noto a tutti come “la Bestia”. Questo sistema avrebbe dovuto indirizzare il consenso verso lui e il suo partito. Il sistema studiato da Salvini e Morisi è stato per tanti mesi infallibile, ma era inevitabile che col tempo stancasse. Per funzionare era infatti costretto ad alzare costantemente i toni e spesso a fare delle virate che, alla lunga, hanno disorientato e disaffezionato molti elettori. La Meloni, che ha marcato gli stessi temi con toni più soft e con l’agevole possibilità di mantenere una certa coerenza che solo stando a lungo all’opposizione si può avere, è poi passata all’incasso.

Tornando all’altro schieramento, in realtà, c’è stato un momento in cui il PD una sua identità l’ha avuta. Il PD di Matteo Renzi, fondato sulla “rottamazione” dei propri stessi gruppi dirigenti, ha orientato il partito su posizioni apertamente neoliberiste, moderate, atlantiste. Ha abbracciato, almeno in teoria, i temi dell’innovazione tecnologica e dei diritti civili. L’identità del partito renziano era profondamente diversa da quella della parte più a sinistra del PD. Finché Renzi ha potuto godere del vento in poppa dei sondaggi e dei voti (alle Elezioni Europee 2014) tutto il partito gli ha concesso carta bianca, ma dopo il disastro elettorale del referendum costituzionale a dicembre 2016 è iniziato dentro il partito un travaglio infinito, di cui ancora si sentono le conseguenze. Asfaltate le vecchie identità dei due gruppi dirigenti costituenti, indefinita e incrinata la “nuova identità” renziana, incastrati nelle lotte interne tra correnti in cerca di visibilità, assessorati e ministeri, l’agonia del PD è diventata strutturale. Martina e Zingaretti non hanno avuto il carisma e la capacità politica di invertire la rotta e infine Enrico Letta sembra aver dato davvero il colpo di grazia a un partito che dell’origine veltroniana ha conservato soltanto l’unico atteggiamento che avrebbe dovuto cestinare: la vocazione maggioritaria.

Con l’illusione di poter essere il partito egemone di tutta l’area di sinistra, pur portando avanti una politica di centro, il PD ha impostato tutte le sue campagne elettorali sulla contrapposizione al “pericolo” della Destra anziché sulla valorizzazione delle proprie proposte. Promuovendo altresì il ruolo del PD come primo e più potente argine agli avversari ha inoltre ottenuto l’effetto di condannare tutti i partiti che nel tempo abbiano deciso di allearsi con loro ad essere ridotti ai minimi termini: chiedere a Di Pietro, Vendola e infine allo stesso Di Maio per conferma.

Nelle elezioni del 2018 e ancor più in quelle dello scorso settembre l’elettorato PD è apparso rassegnato, avvilito e anche un po’ annoiato. In tanti hanno scelto ancora una volta di “tapparsi il naso” e confermare il voto a quel partito con la motivazione che non trovavano alternative. La stessa cosa che dicevano alcuni lustri fa molti elettori della DC (che tuttavia le elezioni almeno le vinceva). Essere diventati partito egemone dell’area a sinistra di Forza Italia comporta anche questo, ovvero “vivere di rendita”, accettando anche le sconfitte pur di mantenere un proprio peso politico. Inutile per il bene comune, ma utilissimo per mantenere posizioni di potere e magari poi concorrere, con l’elegante ancorché inflazionata scusa della “responsabilità”, a far parte di qualsiasi tipo di governo. Nelle ultime settimane, tuttavia, questo noiosissimo e ignavo quieto vivere sta subendo per la prima volta il “rischio” di finire. Il Movimento di Conte sta superando nei sondaggi il PD e si candida ad essere nuovo punto di riferimento dell’area progressista. Il tutto accade nel momento in cui il PD è ancora guidato da un segretario dimissionario, che non gode di nessuna fiducia nel proprio stesso partito e che non sta azzeccando una mossa da mesi.

Ecco, dunque, che le contraddizioni del PD esplodono in tutta la loro evidenza. Accade che una parte del PD lombardo oltre ad importanti esponenti nazionali come l’ex capogruppo Andrea Marcucci e il tesoriere Luigi Zanda spingano apertamente il partito a sostenere Letizia Moratti, fino a pochi giorni fa vicepresidente della giunta di centrodestra, come propria candidata alle Regionali della prossima primavera. Nel Lazio pare sempre più probabile un accordo tra il PD e il polo di Renzi e Calenda. Emergono però anche voci di forte critica interna sia in Lombardia (gli eurodeputati Pierfrancesco Majorino e Brando Benifei) che a livello nazionale.

L’alternativa politica all’attuale Destra di governo non si crea con la sola opposizione frontale e con la denigrazione. Ben venga la critica motivata sulle scelte fatte, ma occorre soprattutto saper costruire una alternativa concreta. Basta dunque con discorsi privi di sostanza sul “campo largo” o su simili formule farlocche. Le elezioni si vincono solo riportando alle urne quei tanti cittadini giustamente delusi e che ritengono di non avere rappresentanza: serve dunque una piattaforma programmatica autenticamente progressista, attenta al lavoro e ai giusti salari, dedita all’istruzione e alla formazione dei giovani, capace di garantire i servizi essenziali e stimolare l’innovazione, lungimirante al punto da vedere nella transizione ecologica uno straordinario volano di crescita economica, sensibile ai diritti civili e alla parità di genere senza limitarsi a ridicole questioni di tipo grammaticale.

La sfida per il Movimento 5 Stelle, il Coordinamento 2050 e le altre realtà progressiste che intendono seguire questo tipo di programma – indipendentemente dal destino che il PD deciderà per sé stesso – è chiara. Già dalle elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia sarebbe opportuno che queste forze si unissero per portare avanti candidature davvero dirompenti (non faccio nomi, ma ne ho diversi in mente per entrambe le regioni) e finalmente in grado di restituire fiducia e concreta speranza di cambiamento.

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