Sab. Feb 15th, 2025

“Non si è mai abbastanza attenti nello scegliere i propri nemici” (Oscar Wilde)

Siamo nel mezzo di una sfida probabilmente decisiva. La sfida finale tra Conte e Renzi, due personaggi che hanno ormai ben chiaro un concetto piuttosto brutale: solo uno dei due potrà avere un futuro.

Giuseppe Conte era ed è un apprezzato avvocato e docente universitario, dal 2013 al 2018 membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Fino ad inizio 2018 nulla faceva intuire ambizioni politiche, poi a febbraio di quell’anno Luigi Di Maio lo indicò come candidato Ministro della Funzione Pubblica in vista delle imminenti elezioni. Giuseppe Conte, fortemente sostenuto dal collega avvocato Alfonso Bonafede, emerse poi come candidato ideale alla Presidenza del Consiglio nel primo governo, il “gialloverde”, di questa legislatura.

Giuseppe Conte fu a lungo dipinto come un burattino nelle mani dei due vicepremier Di Maio e Salvini. Ai tempi Matteo Renzi, armandosi di popcorn, lo definì offensivamente “il vice dei suoi vice”. La sua figura, per come veniva descritta sui giornali, appariva simile a quella del classico “Papa di transizione”, un personaggio modesto messo lì in attesa che si risolvessero le liti tra i “veri” potenti.

Matteo Renzi era invece politicamente distrutto, artefice principale del disastro elettorale del PD, messo in discussione all’interno del partito e detestato da buona parte della “base” che tanto aveva sperato in lui appena pochi anni prima.

Il disegno renziano su Conte forse parte già da allora. Renzi al tempo sottostimava, come quasi tutti, il ruolo di Conte. Sapeva che buona parte dell’elettorato PD era passato con il M5S e dunque aveva bisogno di “scegliersi il nemico” più adatto a recuperare quell’elettorato. Il miglior nemico possibile non poteva che essere Matteo Salvini. La speranza renziana era quella di recuperare gradualmente potere all’interno del proprio partito e porsi poi come “paladino” della lotta anti-sovranista, antagonista dell’altro Matteo.

Matteo Renzi aveva dunque bisogno di avere Matteo Salvini al governo e la mossa apparentemente scellerata della “strategia popcorn” si può spiegare così. Non sempre però le strategie riescono. E a Renzi, tranne le primissime (gli indimenticabili 80 euro), non sono mai riuscite un granché…

Il primo governo Conte, elettoralmente parlando, è stato una vera Caporetto per il Movimento 5 stelle e, non a caso, a un certo punto Renzi si era anche pubblicamente vantato del fatto che la sua scelta di chiamare fuori il PD e quindi, costringere il Movimento ad ancorarsi alla Lega aveva portato alla distruzione elettorale dei pentastellati.

Nel frattempo, lo stesso Matteo Renzi era stato messo da parte dal suo stesso partito e, anche se gran parte degli eletti in Parlamento erano stati nominati da lui, il partito dopo un anno dalle elezioni era comunque riuscito a organizzare un congresso e aveva eletto Nicola Zingaretti come nuovo segretario.

Arriviamo quindi al Papeete quando Salvini, forte del consenso ottenuto alle elezioni europee e da quello che gli veniva attribuito dai sondaggi, fece cadere il primo governo Conte. Si dice che avesse avuto la garanzia dallo stesso Renzi che non ci sarebbe stato un governo diverso e quindi il presidente Mattarella sarebbe stato costretto a sciogliere le camere e indire nuove elezioni. Non sapremo mai se questa assicurazione sia mai stata data davvero, ma visto il personaggio non appare inverosimile.

Anche a Zingaretti in quel momento poteva far comodo andare ad elezioni per un motivo semplice: pur essendo sicuro che quelle elezioni il suo partito le avrebbe perse tutto sommato sarebbe riuscito comunque a portare nel nuovo Parlamento gente di sua fiducia anziché gente nominata da Matteo Renzi

La mossa intelligente di Matteo Renzi fu dunque quella di proporre di fatto la nascita di un governo di coalizione con gli odiati 5 Stelle. La nascita di quel governo si deve a due persone, Matteo Renzi e Beppe Grillo, le due persone più distanti e diverse del mondo, ma che in quel momento avevano il comune obiettivo della sopravvivenza politica. Matteo Renzi sapeva che con nuove elezioni sarebbe stato messo all’angolo dal Partito Democratico e sarebbe stato ridotto all’irrilevanza politica. In quel momento nuove elezioni potevano significare un disastro elettorale anche per il Movimento 5 Stelle e quindi la mossa di Beppe Grillo si giustificava appunto con la necessità di evitare quelle elezioni.

In questa fase, bisogna riconoscerlo, il Movimento ha fatto una mossa inattesa, cioè quella di insistere sul fatto che a guidare il nuovo governo dovesse essere nuovamente Giuseppe Conte. Fosse stato per Renzi tale opzione non sarebbe esistita, ma in quel momento non aveva potere contrattuale per impedirlo.

Giuseppe Conte cessava di essere il mediatore, il paciere, la figura indipendente che faceva ragionare due forze politiche distante anni luce tra di loro come era stato nel precedente governo: con il Conte II il presidente diventava effettivamente tale, diventava un leader politico. Un cambiamento molto forte sancito dal discorso di fine agosto con cui Conte si toglieva un bel po’ di sassolini dalle scarpe e inchiodava Matteo Salvini alle sue (ir)responsabilità.

Nasceva in quel momento un Conte, anche a livello mediatico, capace di essere leader politico di uno schieramento che si contrapponeva al leader dei sovranisti. Con quel solo discorso Giuseppe Conte è riuscito a ottenere molto più di quello che Matteo Renzi non era riuscito a fare in anni di “strategie”.

Matteo Renzi probabilmente si rese subito conto di essersi salvato dalle elezioni che lo avrebbero eliminato, quindi diciamo con la mossa del nuovo governo si era liberato del suo avversario interno cioè Zingaretti, ma si accorse anche di aver creato un avversario ben più potente. Nasceva così, dopo poche settimane dal Conte II, il partito personale di Matteo Renzi, Italia Viva. Il nuovo partito nasceva come scissione dal PD ed è stato percepito in maniera evidente fin dall’inizio come un elemento di forte criticità all’interno della nuova maggioranza che sosteneva il Conte II. L’ambizione di Matteo Renzi era quella di ribadire sempre un concetto: caro Giuseppe Conte tu sei presidente per grazia mia quindi tieni sempre bene in considerazione questo fatto, la golden share del governo è comunque mia.

Nel frattempo, però, sono emerse due realtà fondamentali: la prima di natura politica, la seconda legata all’attualità.

Politica: anche all’interno dell’elettorato del centrosinistra i continui attacchi, le continue rivendicazioni portate avanti da Matteo Renzi, hanno creato un crescente disagio tanto che anche e figure spesso che in precedenza erano state molto vicine a Matteo Renzi si sono rese conto che forse non era più lui il leader vincente da sostenere.

Attualità: la gestione della pandemia ha portato Giuseppe Conte ad una sovraesposizione mediatica senza precedenti. Tale condizione ha portato Giuseppe Conte, tra l’altro con pochissimo supporto da parte del suo governo, a recitare un ruolo da protagonista assoluto anche nel contesto europeo. Il famoso Recovery Plan è stato proposto, in origine, proprio da lui e dal presidente spagnolo Sanchez.

Siamo dunque arrivati alla crisi attuale, che è stata in realtà posticipata di circa un anno perché poco prima che emergesse il grande problema, ovviamente prioritario, della pandemia era già evidente che c’erano dei tentativi da parte di Matteo Renzi di far cadere il governo.

Quale era la grande preoccupazione di Matteo Renzi? La grande preoccupazione di Matteo Renzi era che si fosse venuta a creare una saldatura molto forte tra Partito Democratico zingarettiano, Movimento 5 Stelle e Sinistra. Durante la pandemia questa saldatura è stata ancora maggiore: del resto è anche abbastanza naturale che nei momenti di massima attenzione, di massima emergenza, chi si trova ad affrontarle in prima linea sviluppi anche una maggiore collaborazione. Forse l’assenza in questi mesi dai tavoli di crisi degli esponenti di Italia Viva, il fatto che anche nei momenti di maggior difficoltà da Matteo Renzi siano arrivati addirittura messaggi di critica al governo molto simili a quelli portati avanti dalla destra, persino sui giornali stranieri, ha alimentato ulteriormente i dissidi. Impossibile dimenticare, ad esempio, l’intervista a Der Spiegel in cui Renzi invitava il resto del Mondo a “non fare gli stessi errori dell’Italia”.

Quella saldatura che Matteo Renzi temeva, in realtà, anche a causa anche della gestione della pandemia è diventata ancora più forte. Matteo Renzi ha deciso a questo punto, in un momento probabilmente del tutto sbagliato (voglio credere che questo non fosse il momento che Matteo Renzi voleva dedicare alla crisi, ma evidentemente ci sono delle motivazioni – magari nei prossimi mesi capiremo anche quali – che lo hanno spinto a rompere proprio ora) di far saltare tutto.

Con le dimissioni di Giuseppe Conte, passaggio strettissimo e obbligato per tentare la strada di un reincarico (liturgie da prima repubblica, ma sempre attualissime), ora la palla passa al Centro. Proprio dall’area cattolica può arrivare la soluzione, in un senso o nell’altro, della crisi innescata da Renzi. Occorre altresì verificare se il centro moderato ed europeista vorrà recuperare una propria autonomia all’interno di una coalizione europeista oppure si accontenterà di rimanere come appendice della destra sovranista.

Ipotesi 1: si forma un gruppo parlamentare di centro (tipo il Centro Democratico di Bruno Tabacci alla Camera) che aggrega un congruo numero di senatori centristi, inclusi alcuni che escano da Italia Viva. Se tale operazione riuscisse ad andare in porto potrebbe nascere un nuovo governo guidato da Giuseppe Conte e Matteo Renzi sarebbe ridotto definitivamente alla totale irrilevanza politica. A meno che non si riscopra sovranista e decida di continuare la sua esperienza politica a destra, s’intende.

Ipotesi 2: l’operazione centrista non riesce e Giuseppe Conte deve arrendersi. A quel punto può nascere un governo di “salvezza nazionale”, “tecnico” o comunque lo si voglia chiamare che metta insieme i promotori/fruitori della crisi: Italia Viva, centrodestra (tranne Fratelli d’Italia, non credo che i meloniani siano così autolesionisti da partecipare a una soluzione simile), centristi vari, calendian-boniniani e una parte del Partito Democratico, popolato ancora (a livello di eletti in Parlamento) di renziani. Nascerebbe dunque un governo Cottarelli (Draghi non accetterebbe mai*) per arrivare all’elezione del nuovo capo dello Stato e gestire i fondi del Recovery Plan ottenuti – ironia della sorte – da Giuseppe Conte.

Ipotesi 3: la crisi va fuori controllo e Mattarella è costretto a sciogliere le camere, convocando nuove elezioni. Giuseppe Conte può presentarsi alla guida di una coalizione di forze politiche, eventualmente anche come capolista del Movimento 5 Stelle. Male che vada diventa il nuovo leader dell’opposizione. Italia Viva non rientra in Parlamento e Matteo Renzi, bene che vada, può concorrere alla decima stagione di Masterchef Italia.

Nel frattempo, i paesi europei continueranno comunque a guardarci increduli e a domandarsi: “ma siamo proprio sicuri di dare oltre 200 miliardi a questi sciagurati?”.

Comunque vada a finire l’arbitro Mattarella ha fischiato: palla al Centro e – speriamo – vinca l’Italia. Una volta tanto.

* ecco, il fatto che abbia accettato mi ha davvero stupito, lo ammetto.

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