Ovunque sia stato negli ultimi anni, in ogni vacanza e persino in molte trasferte di lavoro ho sempre incontrato casualmente amici o conoscenti di Città di Castello. In Trentino trovai un’intero albergo (Arnika a Passo San Pellegrino), in Croazia – praticamente in mezzo al nulla – addirittura ci trovammo ad inseguire una Panda sulla cui targa leggemmo il nome di una concessionaria di Cerbara.
Quest’anno abbiamo esagerato. E ora basta ironia perché vi racconto una storia terribile ed emozionante al tempo stesso. Gibellina era una piccola città siciliana nel Belice. Il 15 gennaio 1968 un fortissimo terremoto la distrusse completamente uccidendo molti dei suoi abitanti. L’allora sindaco Corrao ottenne di poter ricostruire la città a circa 20 km di distanza e chiamò tutti i più grandi artisti dell’epoca a donare opere per dare lustro alla nuova città. Alberto Burri visitò la nuova città, ma non ne trasse grande ispirazione, chiese dunque di essere portato nel luogo in cui sorgeva la Gibellina originaria, ormai ridotta ad un cumulo di macerie. Qui il tifernate Burri ebbe una intuizione straordinaria: inglobare i resti della città, i suoi isolati e tagliarli a una altezza di circa un metro e mezzo quindi cementificare il tutto, ad eterna memoria della città che fu. Questo è il Grande Cretto, una delle opere più inquietanti e sconvolgenti al mondo. L’impatto quando si arriva, dopo chilometri di strada tra le colline, nel vuoto assoluto con solo qualche casa sparsa e diroccata qua e là, è da brividi. Camminare in mezzo al Cretto, pensando che lì fino a quel giorno di gennaio del 1968 c’erano case, persone, vite e speranze sembra restituire, idealmente, vita o almeno la dignità della memoria a chi in quel terribile dramma perse davvero tutto. E allora grazie davvero ad Alberto Burri, caro amico di Città di Castello.